La prima cosa che ho ricercato quando ho iniziato ad andare in montagna è stato il selvaggio: più un luogo è distante dalla civiltà, più mi attrae. L’ignoto può essere terrificante ma è anche irresistibile allo stesso tempo e anche l’arrampicata non è altro che una continua ricerca dell’ignoto, tarata su una scala più piccola, quella della parete che ti si para di fronte al naso mentre sei lì, alla ricerca del costante movimento.
Ero stato in Valle di San Lucano solo una volta, rimanendo folgorato dalla sua sconcertante dimensione verticale che ti schiaccia con forza. Fin da subito avevo percepito l’odore di selvatico.
E il gran diedro Casarotto-Radin era lì, un obiettivo, un sogno.
Cagia è il compagno giusto e con noi si aggrega anche quella macchina da guerra che è il Capo. Le sensazioni sono buone anche se mentre sei lì che risali lo zoccolo boscato, più volte ti chiedi il perché di quello che stai facendo e la risposta prontamente non arriva perché sei troppo impegnato a non ammazzarti sui terzi gradi vegeto-minerali.
La via non perdona e i due tiri duri sono delle legne. Quando Cagia ci chiede di bloccarlo perché è in ghisa non ci crediamo, pare impossibile! Da secondo mi riesce la libera, con lo zainone, anche se arrivo in sosta totalmente finito. Sul secondo mi arrendo al tetto finale, troppo duro con lo zaino che mi risucchia verso il basso.
Poi bivacchiamo in una nicchia dove il posto sarebbe per due persone e noi siamo in tre. Qui Cagia da il meglio di sé con il suo proverbiale pessimismo e così andiamo a dormire pensando a temporali, aerei perduti e chi più ne ha, più ne metta.
La mattina seguente mi sveglio bene col primo tiro sul giallo e mi rincuora sapere che anche il Mass, in occasione della sua prima ripetizione, ovviamente solitaria, si chiese come Renato fosse stato in grado di piantare il mitico chiodone su quella lavagna gialla. Adesso il chiodone non c’è più, è stato sostituito da un chiodo normale, ma mentre sono in sosta, un pensiero corre a Renato.
Renato Casarotto per me è l’Alpinista, quello con la “A” maiuscola. Riuscire ad aprire un capolavoro di logicità ed estetica, per giunta in un luogo remoto e pure spingendo l’arrampicata su difficoltà elevate, ne è la prova.
Ci alziamo ancora e finalmente appare l’immenso diedro, urlo ai compagni che lo vedo e che è asciutto! Un’energia infinita mi pervade, che gaso!
Conduco due tiri, poi lascio a Cagia l’onere di proseguire e lui se la sbriga tranquillamente, tiro dopo tiro. Capo parte sempre per secondo e corre come un treno distanziandomi per bene.
L’ultimo tiro, prima di uscire sulla grande cengia, è letteralmente sulle uova. Complimenti a Cagia che se lo spippa con agilità.
Alla grande cengia ci sleghiamo e proseguiamo veloci sulle rocce finali per ritrovarci poco dopo in cima, tutti e tre ancora con la calzamaglia addosso. Il sorriso stampato sul volto.
La discesa è eterna perché scendi tre volte e ne risali due.
Mi ritrovo in sosta con Capo a riflettere su che esperienza mistica stiamo vivendo. Forse la carenza di zuccheri al cervello ha contribuito al delirio ma credo che il sentimento fosse reale.
Quando arriviamo in forcella Gardes ci sediamo sull’erba e diamo fondo a tutto quello che ci è rimasto, poi ci incamminiamo verso il fondovalle che è ancora lontano, mossi dal desiderio di una maxi-pizza giù ad Agordo.
Quando dopo cena ci salutiamo non so neanche cosa dire, Capo mi suggerisce di non dire nulla che ci siamo capiti lo stesso. Anche Renato si era reso conto quanto fosse difficile tradurre col linguaggio convenzionale certe esperienze che ti portano così vicino all’essenza della vita.
Ero convinto che salire il diedro Casarotto-Radin fosse unicamente un punto di arrivo ma solo ora che scrivo capisco che si tratta soprattutto di un punto di partenza.